mercoledì 16 aprile 2014

Quante cose si possono fare in 24 ore

Cronaca a bordo strada della 24 Ore di Torino, 12 aprile 2014.

Prendo a prestito le parole di Madre Teresa, col dovuto rispetto, per cercare di commentare qualcosa che apparentemente sfugge al raziocinio di molti e al buon senso del comune pensare: “Dietro ogni traguardo c'è una nuova partenza. Dietro ogni risultato c'è un'altra sfida. Finché sei vivo, sentiti vivo. Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere”.

"24 Ore di Torino", 12 aprile 2014

Si vive nel quotidiano cercando di creare un equilibrio tra i mille impegni i quali si è chiamati a gestire. Poi c'è qualcuno che scompiglia questo precario equilibrio, volutamente, per realizzare qualcosa che sa già di essere impopolare perché sfugge alla legge del buon senso e da ogni logica. Ma lo fa lo stesso in barba alle opinioni altrui. C'è chi le chiama passioni e chi le considera pazzie, folli imprese al di fuori di ogni ragionevole motivo.

Ecco, la ragione appunto, il metro di misura di ogni comportamento socialmente condiviso. Tutto ciò che non può essere valutato con questa unità di misura è pura follia da guardare con diffidenza, e chi è artefice di imprese impopolari è considerato un sognatore, che equivale a dire un incosciente. Un irrazionale che perde il tempo a inseguire chimere, sogni stravaganti, senza nessuna utilità, neppure per se stesso. La corsa rientra in questo “libro nero” delle cose senza senso. Ma per fortuna, non per tutti.

Si è conclusa da 24 ore la “24 Ore di Torino”, alla quale hanno partecipato poco più di 80 persone. Un'altra ottantina di podisti ha corso contemporaneamente una “sei ore” e una 100 chilometri.
Persone dotate di raziocinio che fanno parte di ogni categoria di lavoratori, dall'operaio al professionista, dalla casalinga all'infermiera, che hanno deciso di fare spazio nella loro vita ad un sogno: correre ad oltranza per cercare e trovare uno stato di pura soddisfazione.
Far emergere una parte nascosta del proprio essere per sentirsi bene, forse migliori di prima, o semplicemente effettuare con questa distanza un viaggio interiore. Un percorso per ritrovarsi e per ritrovare l'essenza della loro vita.

È gente che sa che concluderà la competizione con un corpo che sarà martoriato dalla stanchezza, sfiancato dalla fatica, sentiranno le membra doloranti, ma nonostante tutto ciò sa anche che alla fine riscoprirà quella parte spirituale nascosta e coperta da strati e strati di polvere. Una sfida con se stesso e con le proprie resistenze fisiche e mentali. Una scommessa col proprio io, di continuare a credere che tutto è possibile se a guidare sarà una grossa forza di volontà.

Siamo nel periodo quaresimale e, senza essere blasfemi, è come assistere ad una forma di battesimo laico, dove ognuno si spoglia metaforicamente di una corazza, per far affiorare invece il meglio di se stesso. La lunga distanza dunque vista come l'immersione in un fiume sacro, per riemergere poi purificati dalla fatica e dal sudore, e rinati alla vita.
Ecco l'essenza che traspariva dai volti sfatti dalla stanchezza ma radiosi di una luce nuova, di un benessere ritrovato.



Un evento così particolare come questo è stata una esperienza straordinaria non solo per chi l'ha corsa, ma anche per chi l'ha seguita o chi ha accompagnato un parente o un amico: impossibile restare indifferente.

In passato, ogni volta che Paolo mi metteva al corrente di una sua partecipazione ad una gara di lunghezza superiore alle precedenti, mi sono sempre opposta, forte delle mie “ragioni”. Dalla preoccupazione, dal “buon senso” che mi spingeva a dire: “Non ti basta correre? A che serve fare uno sforzo superiore?”. Evidentemente non gli bastava ed io ignoravo quella sua esigenza. Quello sforzo era il prezzo da pagare per soddisfare la sua ebbrezza di sentirsi una creatura nuova, di percepire quella voglia con la quale si condiscono i sogni.

Così per non mandare in frantumi i suoi progetti, alla vigilia di ogni partenza reprimevo le mie “ragioni” e mi mettevo al suo fianco per sostenerlo come mi era possibile.
L'ultima volta che mi disse di volere fare una lunga distanza, me lo comunicò dopo essersi iscritto, aggiungendo che sarebbe stata una 24 ore! “Una 24 ore?? No!” dissi. “Questa volta non appoggio la tua idea e non cercare di convincermi del contrario. Questa volta non ti seguo, non voglio essere complice del tuo suicidio!”.
A distanza di qualche mese da quel giorno, eccoci a Torino, nel parco Ruffini, dove l'organizzatore, Enzo Caporaso, fece la sua impresa correndo 51 maratone in 51 giorni! Allora mi son detta: questo è il posto ideale per imprese fuori l'ordinario!

Lungo la pista, che si snoda nel parco per quasi un chilometro e mezzo, è un'esplosione di colori primaverili, costeggiata da alberi dal lungo fusto. Una scenografia magnifica. A bordo strada qualcuno che non è alla sua prima esperienza con gare di questo tipo si è attrezzato con tende canadesi e banchetti per il ristoro dei propri assistiti. All'arrivo è stato un continuo sbracciarsi e salutarsi: gente venuta da ogni parte d'Italia si è ritrovata qui, nei pressi del palazzetto di atletica. La tensione che Paolo tentava di tenere sotto controllo si è “magicamente” sciolta in mezzo a tutti quegli amici prodighi di consigli e di racconti inerenti la disciplina.

Ecco Francesco Arone, l'uomo che corre sempre a piedi nudi, con il suo amico Giancarlo. Francesco si misurerà nella 100 chilometri per battere il record mondiale. Arriverà secondo, ottimo piazzamento. Ci accoglie a braccia aperte ed è un fiume di parole. Gli consegno le mie di parole, che ho scritto per lui e per la sua particolare usanza di correre sempre scalzo. La sua postazione è attrezzatissima di ogni tipo di supporto, dall'umano all'integratore. Ci fa conoscere Francesco Zora, anche lui con familiari al seguito. Salirà sul primo gradino del podio.
Poi si presenta Leonardo Vacca: ha saputo che veniamo da Roma, sua città natale, ed è stato sufficiente affinché entrassimo in simpatia.

Nella postazione antistante il palazzetto dello sport, dove tutti gli atleti poggiavano i borsoni col cambio, è stato un continuo salutarsi in un'atmosfera gioviale e goliardica. Ecco il mitico Graziano Guerrieri, ex dipendente delle ferrovie, che ora corre come un treno tutte le gare che gli capitano a tiro. L'ultima effettuata pochi giorni fa. Poi arriva anche Giovanbattista Malacari.

Man mano che ci si parlava, vedevo in Paolo sciogliersi ogni timore, ora era carico al punto giusto per affrontare questo “battesimo” di 24 ore. Il tempo prometteva bene, il grigio del mattino per fortuna non minacciava la temuta pioggia. Anzi, verso mezzogiorno uno splendido sole primaverile ha fatto compagnia a tutta quella processione di gente che aveva deciso di correre in quel magnifico parco.

Io, invece, in compagnia della mia fedele Canon percorrevo passeggiando le stesse vie del parco, catturando immagini come fossero farfalle da spillare nel mio archivio. Sono abituata a vedere correre questi mangiatori di chilometri, ma il pensiero delle ore che sarebbe durata la gara – un giorno intero –, mi dava un senso di vertigini. Se nelle ore antipomeridiane sembrava di assistere ad una maratona, nel pomeriggio vedere continuare quello scorrere di fiume umano mi trasmetteva qualcosa di diverso. Riuscivo a percepire quanto la tenacia e la testa fossero importanti per far muovere le gambe. Non si trattava più di sola forza e resistenza fisica, lì oramai si correva anche e soprattutto con la testa.

Ci sono stati momenti di pura condivisione. Ad un certo punto non era tanto chi stava a bordo strada ad incitare, ma il gruppo stesso degli atleti si sosteneva a vicenda. Erano loro stessi che si incitavano e si incoraggiavano a procedere. Ho vissuto quei momenti con commozione, vedevo come nella fatica venisse fuori uno spirito di solidarietà difficilmente riscontrabile in altri ambienti e situazioni, dove prevale l'io assoluto sugli altri.

Anche chi non si conosceva da prima durante la gara ha familiarizzato e si è creata una sintonia, per cui non era il numero di pettorale ad identificarli ma il proprio nome. Si chiamavano per nome per dirsi: “su! Dai! Stai andando bene”, oppure “dai, non correre, ora cammina, gestisci bene le tue energie”.

Poi, col calare delle ombre della notte, quegli incitamenti divennero più confidenziali. Si facevano tratti di strada insieme e come in una sorta di confessionale ci si raccontava. Di figli, di amori, di assenze, di se stessi. Creando una condivisione di sensazioni e di affinità.
Toccante è stato vedere con quanta determinazione correva un ragazzo che avevamo conosciuto il giorno prima in albergo e poi durante il pranzo. Quelle poche chiacchiere ci avevano rivelato l'animo generoso di questo ragazzo, con alle spalle una straordinaria esperienza nelle lunghe distanze in vari Paesi del mondo. Eppure nei suoi racconti non trapelava arroganza, anzi si raccontava con una certa lievità, parlava di imprese di non poco conto come fossero storie appartenute ad altri. Una di quelle persone piacevoli da ascoltare che non annoiano, anzi ti lasciano un buon ricordo.

In questo caso non c'era tempo per il ricordo, il presente contava, da vivere pienamente. La nostra nuova conoscenza era Ciro Di Palma, uno dei concorrenti più quotati per la vittoria o quantomeno per il podio. Ed effettivamente portava avanti la sua gara con una determinazione e con una grinta fenomenale. Con un passo costante ed elegante, sembrava che neanche toccasse la strada. Nonostante la concentrazione nella sua gara, non si è risparmiato di incitare gli altri compagni. Ad ogni giro incoraggiava Paolo con parole di supporto, con battute, consigli, continuando a mantenere il sorriso ed il passo che si era prefisso per restare in testa alla classifica.

Verso le ultime ore della gara, quasi un giorno dopo l'inizio della stessa, Paolo come tutti gli altri non riusciva a nascondere la sofferenza che ormai faceva da padrona. Mi dava sicurezza vederlo col sorriso sulle labbra, che non smetteva di dedicare a chi lo incoraggiava. Ma l'andatura claudicante evidenziava il dolore all'anca col quale combatte da un po' di tempo. Gli ho dato il ghiaccio sintetico per neutralizzare il dolore, ma fino alla fine se lo è portato dietro come un accessorio.
Mentre lo accompagno a distanza, gli chiedo come sta e lui con un sorriso di riserva mi comunica quanto sia felice di non essersi fermato mai, di aver proceduto ininterrottamente le sue 24 ore, e ora che restavano gli ultimi 60 minuti, in lui ed in altri, si era svegliato un ultimo sprazzo di forza per chiudere la gara con uno sprint finale, come conviene ad ogni corsa che si rispetti.

Vengono consegnati i “cinesini”, i segnapostazione da mettere a terra al secondo sparo dei giudici. Facciamo insieme gli ultimi due giri, a distanza per non invalidare la gara e rischiare una squalifica. Sono momenti in cui tengo a freno l'emozione, mi verrebbe da piangere perché è riuscito a raggiungere il suo obiettivo, a coronare il suo sogno, aver fatto tutta quella fatica per assaporare e sentire l'emozione di quella manciata di minuti in prossimità dell'arrivo.

Al secondo sparo è FINITA, finalmente finita. Tutti poggiano a terra il proprio “cinesino”. Lui a fatica riesce a posare il suo, le gambe sono diventate due tronchi incapaci di piegarsi. Finalmente le lacrime sono lasciate libere di solcare quel viso madido di sudore, escono da quegli occhi gonfi dal sonno e dalla commozione. In quello sguardo umido è racchiusa tutta la soddisfazione per aver concluso, di essere arrivato fino alla fine. Appoggiato sulla mia spalla e abbracciati come due naufraghi, ci incamminiamo verso il traguardo dove si sono radunati gli altri, e soprattutto dove si trova un presidio medico per curare le ferite. Avrei voluto salutare uno ad uno tutti i partecipanti, ma non c'è stato tempo. Nello stadio Primo Nebiolo, alle ore 10, in concomitanza con la fine della gara “24 Ore”, iniziava la 3^ edizione della “Run for Parkinson”, un evento a scopo benefico.

C'era un podio da onorare e lì ho avuto l'amara sorpresa di non vedere Ciro, quell'uomo tutto energia che per poco non era riuscito a salire su quei gradini. Aveva conquistato il quarto posto. La grandezza degli uomini non si misura con i numeri, gli dissi, ma capisco che arrivare nelle prime postazioni in classifica e non salire su uno di quei tre gradini, lascia veramente l'amaro in bocca. Altri traguardi aspettano di essere raggiunti, ma oggi, per quello che ho visto, per me virtualmente stanno tutti sul podio con un unico gradino, il numero uno.

Si ritorna a casa, con la stanchezza nelle gambe, la gioia nel cuore e due pagine bianche da riempire: una con i volti di sconosciuti che Paolo ha sentito vicino, e nell'altra i nomi di nuovi e vecchi amici che hanno condiviso questa fantastica e dura esperienza. Grazie quindi a Tiziana Bonetto, Oscar, Antonio, Francesco, Michele, Ciro, Leonardo, Guido, e poi a Santo Borella, Antonio Tallarita, Sara Valdo, Antonio Mazzeo e Gregorio Zucchinali.

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